Dalla FIE: Foreste e boschi: differenze, classificazioni ed escursionismo – parte I

Introduzione

Nel vasto panorama degli ecosistemi naturali, il mondo delle foreste e dei boschi occupa un posto di rilievo non solo per la loro bellezza intrinseca, ma anche per il ruolo fondamentale che svolgono in termini di biodiversità, clima e cultura territoriale. Per gli appassionati di escursionismo, questi ambienti rappresentano luoghi di scoperta, ispirazione e rigenerazione, in cui il camminare diventa un’occasione per entrare in contatto diretto con la natura e per approfondire una conoscenza che va ben oltre la superficie visibile.

In Italia, la ricchezza dei paesaggi forestali e boschivi si intreccia con una storia millenaria di tradizioni, miti e pratiche di gestione del territorio. La distinzione tra “foresta” e “bosco”, seppur apparentemente sottile, nasconde in realtà numerose sfumature – scientifiche, culturali e operative – che meritano di essere esaminate nel dettaglio. L’obiettivo di questo articolo è duplice: da un lato, chiarire le differenze e le classificazioni relative a questi ambienti; dall’altro, analizzare il ruolo che tali aree rivestono nell’ambito dell’escursionismo italiano, mettendo in luce come la conoscenza profonda della natura possa arricchire sia l’esperienza del camminatore che la tutela dell’ecosistema.

1. Definizioni e distinzioni: foresta e bosco

1.1. Concetti di base e definizioni

Il termine “foresta” evoca immediatamente l’immagine di un’area vasta, imponente e quasi impenetrabile, caratterizzata da una fitta copertura arborea e da una biodiversità straordinaria. Tuttavia, anche il concetto di “bosco” possiede proprie peculiarità. Dal punto di vista botanico ed ecologico, entrambi i termini indicano habitat dominati da piante legnose, ma la distinzione si fa spesso su base quantitativa e qualitativa:

  • Foresta: Tradizionalmente, la foresta si riferisce a un’area estesa in cui la presenza di alberi raggiunge una densità tale da creare una copertura continua, con una struttura stratificata che ospita una vasta gamma di specie animali e vegetali.
  • Bosco: Il bosco, pur essendo un ambiente arboreo, può essere caratterizzato da una copertura meno omogenea e da una struttura meno rigida. In molti casi, il bosco viene inteso come un’area di dimensioni più contenute, spesso in simbiosi con elementi paesaggistici agricoli o rurali.

Queste definizioni, però, non sono statiche: esse evolvono in funzione delle ricerche ecologiche, delle tradizioni locali e delle esigenze operative legate alla gestione del territorio.

1.2. Sfumature semantiche e culturali

Dal punto di vista linguistico e culturale, le parole “foresta” e “bosco” possono assumere significati diversi a seconda del contesto geografico e storico. Ad esempio, nella tradizione letteraria italiana il “bosco” è spesso rappresentato come luogo di mistero e rifugio, dove si intrecciano leggende popolari e racconti epici. Al contrario, la “foresta” assume connotazioni di grandiosità e incontaminata natura primordiale. Questa distinzione, pur essendo in parte poetica, si riflette anche nella gestione e nelle politiche ambientali: le aree designate come “foreste” in ambito istituzionale sono spesso soggette a normative più stringenti rispetto ai “boschi”, per via della loro maggiore importanza ecologica e della loro funzione nella conservazione della biodiversità.

1.3. Aspetti scientifici e operativi

Sul piano scientifico, la distinzione tra foresta e bosco può essere definita attraverso parametri misurabili quali la densità degli alberi, la varietà delle specie presenti e la stratificazione vegetale. Le foreste, per definizione ecologica, si caratterizzano per una struttura verticale complessa, che prevede una chioma fitta e stratificata, mentre nei boschi la struttura può risultare più semplice e meno stratificata. Queste differenze incidono direttamente anche sulle funzioni ecologiche che ciascun ambiente può svolgere:

  • Servizi ecosistemici: Le foreste offrono servizi essenziali come la regolazione del ciclo dell’acqua, il sequestro del carbonio e la conservazione del suolo, risultando quindi cruciali nel contrasto ai cambiamenti climatici.
  • Biodiversità: Sebbene anche i boschi ospitino una notevole varietà di specie, le foreste tendono a garantire una biodiversità superiore, grazie alla presenza di nicchie ecologiche più complesse.

Queste considerazioni non solo hanno rilevanza teorica, ma si traducono in pratiche operative di gestione e conservazione, come vedremo nelle sezioni successive.

2. Classificazioni delle foreste e dei boschi

2.1. Tipologie climatiche e geografiche

Le foreste e i boschi non sono omogenei: essi variano notevolmente in base al clima, alla geografia e alla storia di ogni territorio. In Italia, ad esempio, si distinguono diverse tipologie, che possono essere classificate come segue:

  • Foreste mediterranee: Caratterizzate da specie adattate a climi caldi e secche, come il leccio, il corbezzolo e il pino d’Aleppo. Questi ambienti si trovano prevalentemente nelle regioni meridionali e lungo le coste, dove la stagionalità delle piogge impone rigide strategie di sopravvivenza.
  • Foreste alpestri e montane: Presenti nelle regioni montuose, queste aree ospitano specie come abeti, larici e betulle. La loro struttura è influenzata da fattori altitudinali e climatici, che determinano una rigida stratificazione e una breve stagione vegetativa.
  • Boschi umidi e prealpini: Questi boschi, diffusi soprattutto nelle zone collinari e prealpine, presentano una maggiore varietà di specie latifoglie e conifere, offrendo habitat ideali per una vasta gamma di fauna e flora.

2.2. Classificazioni ecologiche e funzionali

Oltre alle differenze climatiche, le foreste e i boschi possono essere classificati in base alle loro funzioni ecologiche e al grado di intervento umano:

  • Foreste primarie e secondarie: Le foreste primarie sono quelle rimaste sostanzialmente intatte dall’intervento umano, caratterizzate da una struttura ecologica antica e complessa. Le foreste secondarie, invece, sono il risultato di processi di rigenerazione naturale o di interventi di riforestazione, e sebbene possano offrire elevati valori ecologici, presentano una struttura meno complessa rispetto a quelle primarie.
  • Boschi gestiti e boschi naturali: In molti territori italiani, i boschi sono soggetti a gestione forestale per scopi produttivi o ricreativi. Questi boschi gestiti, pur mantenendo un’importante funzione ecologica, differiscono dai boschi naturali per il grado di intervento umano, che può influenzare la biodiversità e la resilienza dell’ecosistema.

2.3. Metodi di studio e mappatura

Negli ultimi decenni, lo studio delle foreste e dei boschi ha beneficiato di avanzate tecniche di mappatura e monitoraggio, che hanno permesso di definire con maggiore precisione le classificazioni ecologiche. L’utilizzo di tecnologie satellitari, droni e sistemi GIS (Geographic Information System) ha rivoluzionato il modo in cui vengono analizzati questi ambienti, fornendo dati preziosi per la gestione sostenibile e la pianificazione territoriale. In Italia, numerosi progetti di ricerca hanno contribuito a delineare una mappa dettagliata delle aree forestali, evidenziando le zone più vulnerabili e quelle che rappresentano un patrimonio naturalistico di inestimabile valore.

3. Il Ruolo Ecologico e Ambientale di Foreste e Boschi

3.1. Conservazione della biodiversità

Le foreste, grazie alla loro complessa struttura e alla presenza di molteplici strati vegetativi, rappresentano veri e propri scrigni di biodiversità. Esse ospitano una moltitudine di specie, molte delle quali sono endemiche e non si trovano in nessun altro habitat. La diversità biologica che caratterizza questi ambienti è fondamentale per il mantenimento degli equilibri ecologici, offrendo habitat sicuri per numerose specie di flora e fauna.
Ad esempio, le foreste primarie, pur essendo rare in molte aree del nostro Paese, costituiscono un patrimonio genetico e ambientale imprescindibile, capace di garantire resilienza agli shock climatici e di fungere da bacino di conservazione per specie minacciate.

3.2. Funzioni ecosistemiche e servizi ambientali

Oltre alla biodiversità, le foreste e i boschi offrono una serie di servizi ecosistemici di primaria importanza:

  • Sequestro del carbonio: La capacità degli alberi di assorbire anidride carbonica contribuisce significativamente alla mitigazione dei cambiamenti climatici. Le foreste fungono da “polmoni del pianeta”, riducendo la concentrazione di gas serra nell’atmosfera.
  • Regolazione del ciclo idrico: Questi ambienti giocano un ruolo cruciale nella regolazione del ciclo dell’acqua, influenzando l’assorbimento e il rilascio di acqua, e contribuendo alla prevenzione di fenomeni come l’erosione del suolo e le alluvioni.
  • Protezione del suolo: La copertura arborea protegge il suolo dall’erosione, mantenendo l’integrità del terreno e favorendo il deposito di sostanze organiche, essenziali per la fertilità del suolo.

3.3. Valore culturale e paesaggistico

Le foreste e i boschi rappresentano anche un patrimonio culturale e paesaggistico inestimabile. In Italia, il legame tra uomo e natura si manifesta attraverso tradizioni secolari, miti popolari e pratiche artigianali che hanno trovato in questi ambienti fonte di ispirazione e sostentamento. La presenza di antichi boschi, che conservano tracce di civiltà passate, si intreccia con la memoria storica e contribuisce a definire l’identità territoriale di intere regioni.

4. Il Ruolo nell’escursionismo italiano

4.1. Escursioni tra foreste e boschi: un’esperienza multisensoriale

L’escursionismo, inteso come arte del camminare e del vivere la natura, trova nelle foreste e nei boschi il contesto ideale per esprimere la propria passione. Camminare in questi ambienti significa immergersi in un mondo fatto di suoni, profumi e colori, dove ogni sentiero racconta una storia diversa.
Gli escursionisti italiani hanno da sempre considerato la natura non solo come sfondo, ma come protagonista attivo delle loro esperienze: dai percorsi nei parchi nazionali alle escursioni in aree meno conosciute, ogni cammino è un’occasione per scoprire nuovi dettagli e per rinnovare il proprio legame con la terra.

4.2. Itinerari e percorsi: dalla tradizione alle nuove proposte

Numerosi itinerari escursionistici si snodano attraverso le aree forestali e boschive del nostro Paese. Alcuni percorsi, tramandati di generazione in generazione, offrono un’immersione totale nella natura incontaminata, mentre altri, frutto di recenti progetti di valorizzazione territoriale, propongono un’esperienza integrata che combina storia, cultura e sostenibilità.
Tra i percorsi più celebri si annoverano:

  • Il Sentiero dei Briganti: Un percorso storico che attraversa boschi secolari, in cui natura e tradizione si fondono in un racconto epico della resilienza rurale.
  • Il Cammino dei Parchi: Un itinerario che collega diversi parchi nazionali e regionali, permettendo di osservare da vicino le diverse tipologie di foreste e boschi presenti in Italia.
  • Percorsi tematici sul foraggiamento: Escursioni dedicate alla scoperta delle piante selvatiche commestibili, che offrono non solo un’esperienza naturalistica ma anche una lezione di cucina tradizionale e sostenibile.

4.3. L’Importanza della conoscenza ecologica per l’escursionista

Per l’escursionista moderno, la conoscenza del territorio rappresenta uno strumento fondamentale. Conoscere le peculiarità di una foresta o di un bosco – dalla tipologia delle specie vegetali alla struttura del sottobosco – significa non solo arricchire l’esperienza personale, ma anche contribuire attivamente alla tutela degli ambienti naturali.
Attraverso l’osservazione attenta e il confronto con le informazioni fornite da guide e studi scientifici, gli escursionisti possono sviluppare una maggiore consapevolezza ecologica, imparando a rispettare e valorizzare ogni elemento del paesaggio. In questo modo, il cammino diventa anche un percorso di formazione, in cui ogni passo si trasforma in una lezione sulla complessità e la bellezza della natura.

5. Gestione e conservazione: politiche e pratiche in Italia

5.1. La gestione forestale nel contesto italiano

La gestione delle foreste e dei boschi in Italia è un tema complesso, che coinvolge istituzioni, enti locali, associazioni ambientaliste e comunità locali. Negli ultimi decenni, l’attenzione verso la sostenibilità ha portato ad un ripensamento delle modalità di gestione, privilegiando approcci che integrino la conservazione ambientale con lo sviluppo delle attività ricreative e culturali.
Il quadro normativo italiano, in linea con le direttive europee, prevede una serie di strumenti volti a tutelare il patrimonio forestale, promuovendo al contempo pratiche di gestione che favoriscano la biodiversità e il benessere delle comunità. Tra questi strumenti si annoverano:

  • Piani di riforestazione: Interventi mirati a ripristinare aree degradate e a garantire la continuità degli habitat naturali.
  • Programmi di gestione Integrata: Progetti che coniugano le esigenze produttive, ricreative e ambientali, con particolare attenzione alle zone di particolare pregio naturalistico.
  • Collaborazioni Pubblico-Private: Iniziative che vedono la partecipazione attiva di enti locali, associazioni di escursionismo e realtà imprenditoriali, finalizzate a valorizzare il territorio attraverso progetti innovativi e sostenibili.

5.2. Casi studio e buone pratiche

Nel panorama italiano esistono numerosi esempi di gestione virtuosa delle foreste e dei boschi. Alcuni parchi nazionali e riserve naturali sono diventati modelli di riferimento, non solo per la tutela della biodiversità, ma anche per l’integrazione delle attività escursionistiche e turistiche in maniera sostenibile.
Ad esempio, la Riserva Naturale Statale di Montemarcello-Magra, con la sua ricca varietà di habitat, ha adottato un modello di gestione partecipata che coinvolge residenti, enti locali e associazioni, garantendo la conservazione della biodiversità e la promozione di attività educative e ricreative. Questi casi studio dimostrano come la sinergia tra istituzioni, scienza e società civile possa portare a soluzioni efficaci per la salvaguardia del patrimonio forestale italiano.

5.3. La formazione degli escursionisti come strumento di conservazione

Un aspetto fondamentale della gestione sostenibile riguarda la formazione e la sensibilizzazione degli escursionisti. Conoscere le buone pratiche, i comportamenti da adottare in natura e le tecniche di foraggiamento sostenibile rappresenta un valore aggiunto per chi percorre i sentieri.
Iniziative formative, corsi di educazione ambientale e laboratori sul campo sono diventati strumenti imprescindibili per diffondere una cultura del rispetto e della tutela degli ecosistemi forestali. Gli escursionisti, grazie a tali percorsi formativi, imparano a riconoscere le specie autoctone, a comprendere l’importanza della biodiversità e a comportarsi in modo responsabile, contribuendo in prima persona alla conservazione della natura.

6. Innovazione, tradizione e futuro: prospettive per l’escursionismo

6.1. Tecnologie al servizio della natura

L’evoluzione tecnologica ha portato notevoli cambiamenti nel modo in cui vengono esplorati e gestiti gli ambienti naturali. L’utilizzo di applicazioni per la navigazione satellitare, sistemi di monitoraggio ambientale e strumenti digitali per l’educazione naturalistica ha rivoluzionato l’esperienza escursionistica.
In Italia, diverse iniziative innovative integrano tecnologia e tradizione, consentendo agli escursionisti di usufruire di mappe interattive, guide digitali e app che segnalano in tempo reale le condizioni del territorio. Queste tecnologie non solo facilitano la fruizione degli itinerari, ma rappresentano anche un valido supporto per la raccolta di dati ambientali, utili a migliorare le strategie di gestione e conservazione.

6.2. La rinascita dei percorsi tradizionali

Accanto alle innovazioni tecnologiche, vi è una forte tendenza a riscoprire e valorizzare i percorsi tradizionali, che costituiscono il patrimonio storico e culturale del territorio italiano. Questi itinerari, spesso nascosti nelle pieghe della memoria locale, offrono esperienze autentiche e permettono di comprendere il profondo legame tra comunità e natura.
La riscoperta dei percorsi tradizionali rappresenta un ponte tra passato e futuro: da un lato, viene preservata la memoria storica e culturale dei luoghi; dall’altro, si promuove un turismo sostenibile e consapevole, che favorisce la tutela degli ecosistemi e il rilancio delle economie locali.

6.3. Prospettive per il futuro: sostenibilità e innovazione

Guardando al futuro, le sfide ambientali e climatiche impongono una revisione continua delle strategie di gestione e valorizzazione delle foreste e dei boschi. In quest’ottica, l’innovazione e la ricerca scientifica assumono un ruolo cruciale nel definire nuovi modelli di interazione tra uomo e natura.
Le collaborazioni tra enti di ricerca, università e istituzioni pubbliche stanno già dando vita a progetti pionieristici che integrano tecnologie avanzate con pratiche tradizionali. Tali progetti mirano a sviluppare modelli di gestione in grado di conciliare esigenze produttive, ricreative e ambientali, garantendo al contempo la resilienza degli ecosistemi e il benessere delle comunità locali.

7. Impatto del cambiamento climatico e adattamento degli ecosistemi

7.1. Le sfide del cambiamento climatico

Il cambiamento climatico rappresenta una delle sfide più urgenti del nostro tempo, con ripercussioni dirette sugli ecosistemi forestali e boschivi. Le variazioni di temperatura, i fenomeni meteorologici estremi e le alterazioni nei cicli idrici mettono a dura prova la capacità di adattamento di molte specie vegetali e animali.
In Italia, gli effetti del riscaldamento globale si manifestano con cambiamenti nella distribuzione delle specie, una maggiore incidenza di eventi atmosferici estremi e una progressiva modifica delle condizioni di crescita delle piante. Queste trasformazioni hanno conseguenze dirette non solo sulla biodiversità, ma anche sulla praticabilità degli itinerari escursionistici, richiedendo una continua revisione delle strategie di gestione e un’attenzione costante alla sostenibilità ambientale.

7.2. Strategie di adattamento e resilienza

Per far fronte alle sfide imposte dal cambiamento climatico, numerose strategie di adattamento sono state sviluppate a livello locale e nazionale. Tra queste:

  • Monitoraggio Continuo: L’adozione di sistemi di monitoraggio ambientale avanzati permette di seguire in tempo reale le variazioni delle condizioni climatiche e della salute degli ecosistemi forestali.
  • Gestione adattiva: L’implementazione di piani di gestione flessibili, che possano essere modificati in base alle condizioni in evoluzione, consente di mitigare gli impatti negativi e di favorire la resilienza degli habitat naturali.
  • Educazione e sensibilizzazione: Formare escursionisti e operatori del settore a comportamenti responsabili e sostenibili diventa fondamentale per promuovere un’interazione più consapevole con la natura.

7.3. Prospettive future e ruolo della ricerca

La ricerca scientifica gioca un ruolo imprescindibile nel delineare scenari futuri e nel fornire strumenti per l’adattamento degli ecosistemi forestali. Progetti interdisciplinari, che coinvolgono climatologi, ecologi e esperti di gestione territoriale, stanno contribuendo a sviluppare modelli predittivi capaci di anticipare le trasformazioni ambientali. Questi studi non solo supportano le politiche di conservazione, ma offrono anche indicazioni preziose per gli escursionisti, che possono così prepararsi al meglio ad affrontare ambienti in continuo mutamento.

8. Conclusioni e riflessioni finali

L’esplorazione dei concetti di foresta e bosco, delle loro classificazioni e dei ruoli ecologici e culturali che essi svolgono, rivela una complessità che va ben oltre la semplice distinzione semantica. In Italia, dove il territorio è costellato da aree di straordinaria bellezza e ricchezza storica, la conoscenza di questi ambienti diventa uno strumento prezioso per chi si avventura sui sentieri, trasformando ogni escursione in un’esperienza formativa e rigenerante.
La gestione sostenibile, la valorizzazione delle tradizioni e l’integrazione delle nuove tecnologie rappresentano i pilastri su cui si fonda il futuro della tutela forestale. Gli escursionisti, con il loro amore per la natura, possono giocare un ruolo attivo nel promuovere comportamenti responsabili e nel diffondere una cultura del rispetto ambientale, contribuendo in maniera significativa alla conservazione degli ecosistemi che tanto arricchiscono il nostro patrimonio.

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Dalla FIE: Escursionismo aristotelico (Aristotelismo)

Introduzione: il contesto filosofico

Aristotele (384-322 a.C.) è stato uno dei più grandi filosofi dell’antichità, allievo di Platone ma al tempo stesso critico e innovatore rispetto all’insegnamento del maestro. Se Platone aveva collocato al centro del suo pensiero il mondo delle Idee, invisibili e perfette, per Aristotele la conoscenza nasce principalmente dall’osservazione e dallo studio della realtà concreta. Il filosofo di Stagira era convinto che la verità si potesse avvicinare analizzando il mondo sensibile, classificandone i fenomeni, cercando di cogliere le cause, le finalità e le relazioni tra gli enti.

Aristotele

Nel suo approccio, Aristotele si interessava di tutto: dalla metafisica alla biologia, dalla logica all’etica, dalla politica all’estetica. La sua filosofia è realista, empirica, orientata all’osservazione diretta. In campo etico, Aristotele è noto per la teoria della virtù come “giusto mezzo” tra due estremi, e per la ricerca della “eudaimonia”, intesa come fioritura armonica dell’essere umano. L’uomo virtuoso non eccede né difetta, ma trova la misura, guidato dalla ragione e dall’esperienza.

Applicare l’approccio aristotelico all’escursionismo significa immaginare un modo di camminare nella natura che coniughi l’osservazione empirica del paesaggio con una riflessione etica sul proprio comportamento, la ricerca di equilibrio tra sfida e facilità, l’attenzione classificatoria nei confronti della fauna e della flora e, soprattutto, la tensione verso un benessere integrale, non ridotto al mero piacere sensoriale, ma orientato alla crescita interiore.

Le radici aristoteliche: osservazione ed esperienza

Una delle caratteristiche principali dell’approccio aristotelico è l’enfasi sull’osservazione diretta. Se Platone invitava a distogliere lo sguardo dal mondo sensibile per contemplare le Idee pure, Aristotele invitava a guardare la natura, a studiarne i fenomeni, a ricavare principi generali dai casi particolari. L’escursionista aristotelico, ispirato da questo metodo, non cammina semplicemente per svago: porta con sé una curiosità vivace e un atteggiamento empatico verso il contesto naturale.

Questo significa prestare attenzione ai dettagli: osservare le forme delle foglie, i comportamenti degli animali, la composizione del suolo, le variazioni della luce, il canto degli uccelli, la distribuzione delle specie vegetali a diverse altitudini. Ogni fenomeno diventa un dato empirico da cui trarre conoscenza. L’escursionista aristotelico potrebbe portare un taccuino per annotare le proprie osservazioni, magari una guida botanica o ornitologica, così da poter attribuire un nome alle creature incontrate. Questo non per puro spirito catalogatorio, ma per capire meglio l’ambiente e riconoscere le relazioni tra gli elementi del paesaggio.

Il giusto mezzo sul sentiero

Aristotele è famoso per la sua etica delle virtù, basata sulla ricerca del giusto mezzo (mesòtes) tra due opposti difettivi ed eccessivi. Il coraggio, ad esempio, è una virtù che si colloca tra la codardia (difetto) e la temerarietà (eccesso). Analogamente, l’escursionista aristotelico non vuole una passeggiata banale e priva di stimoli, né un’avventura estrema e pericolosa. Cerca piuttosto un itinerario che lo metta alla prova senza metterlo in serio pericolo, una camminata che solleciti il corpo e la mente ma senza sfinirli.

Questo principio del giusto mezzo applicato all’escursionismo riguarda la scelta del percorso, la durata e la difficoltà. Invece di spingersi su un sentiero impraticabile o, al contrario, camminare solo su una strada asfaltata, l’escursionista aristotelico si impegna a cercare un itinerario di media difficoltà, adeguato alle proprie capacità, in grado di generare crescita personale. Nel tempo, potrà aumentare la sfida, ma senza mai scadere nell’eccesso, mantenendo un equilibrio tra le proprie forze e gli obiettivi.

Eudaimonia del camminare: tra corpo, mente e spirito

Aristotele definisce la “eudaimonia” come la felicità intesa non come un mero piacere momentaneo, ma come una fioritura piena dell’essere umano, la realizzazione delle proprie potenzialità attraverso la virtù e la ragione. L’escursionismo aristotelico può essere considerato un mezzo per perseguire questa eudaimonia. Camminare nella natura, infatti, non è soltanto un esercizio fisico o un passatempo: è un’esperienza integrale che coinvolge corpo, mente e spirito.

  • Corpo: L’attività fisica dell’escursione migliora la salute, aumenta la resistenza, ossigena i muscoli, riduce lo stress, favorisce il benessere generale. Per Aristotele, l’uomo è un animale razionale che ha un corpo con esigenze precise. Prendersene cura fa parte della virtù, perché un corpo sano sostiene meglio le attività della mente.
  • Mente: L’osservazione e la riflessione sul paesaggio stimolano l’intelletto. L’escursionista aristotelico non cammina a testa bassa, isolato dai suoi pensieri, ma interagisce con l’ambiente, formulando ipotesi, cercando spiegazioni, identificando cause ed effetti. Questa attività intellettuale arricchisce la mente, trasforma l’escursione in un laboratorio naturale di conoscenza.
  • Spirito (o dimensione interiore): Anche la dimensione etica e spirituale è coinvolta. L’escursionista aristotelico non si limita a osservare, ma si interroga sul proprio posto nel mondo, sul rapporto con la natura, sulla responsabilità di preservare l’ambiente, sulla misura del proprio agire. Cercare il giusto mezzo non vale solo per la difficoltà del percorso, ma anche per il proprio comportamento: non consumare in modo eccessivo, non disturbare inutilmente gli animali, non lasciare rifiuti, trattare il contesto naturale con rispetto e ammirazione.

Classificazione e conoscenza del mondo naturale

Aristotele fu uno dei primi grandi naturalisti dell’antichità. Classificò piante e animali, studiò le loro caratteristiche, tentò di comprendere le leggi sottese ai fenomeni biologici. L’escursionista aristotelico può ispirarsi a questa eredità, trasformando la camminata in una sorta di “indagine sul campo”. Senza la pretesa di essere scienziati professionisti, si può comunque affinare la capacità di riconoscere gli elementi della biodiversità locale.

Identificare i vari tipi di alberi, distinguere tra conifere e latifoglie, scoprire quali specie animali vivono nella zona, capire i meccanismi di adattamento di piante e animali all’ambiente montano o collinare: tutto ciò rende l’escursione un’esperienza di apprendimento continuo. Non si tratta di nozionismo fine a se stesso, ma di un esercizio di osservazione vigile e curiosa, che arricchisce la comprensione del mondo e, con essa, la propria vita interiore.

Teleologia e finalità nell’escursione

Aristotele interpretava la natura in chiave teleologica, ossia individuava finalità insite negli enti naturali. Ogni essere vivente tende a realizzare la propria forma, il proprio “telos”, la propria finalità intrinseca. L’escursionista aristotelico, in questa chiave, potrebbe chiedersi: qual è il fine del camminare nella natura? Non è un semplice passatempo, ma piuttosto la realizzazione di uno scopo che coinvolge la crescita personale, la contemplazione del mondo naturale, l’affinamento delle virtù.

L’obiettivo non è solo arrivare a destinazione, ma camminare in modo significativo. Il fine non è soltanto il panorama finale, ma il percorso stesso, inteso come processo di comprensione e affinamento della propria persona. Il telos dell’escursionista aristotelico è la eudaimonia conquistata passo dopo passo: una felicità durevole fondata sull’esercizio della ragione, dell’equilibrio, della conoscenza e della virtù.

Relazione con gli altri e con la comunità

Aristotele considerava l’uomo un “animale politico”, destinato a vivere in una comunità. Anche nell’escursione, pur svolta talvolta in solitudine, si può riflettere sulla dimensione sociale. Camminare in gruppo, ad esempio, offre l’occasione di esercitare virtù come la giustizia (rispettare i turni, non imporre il proprio ritmo agli altri), la generosità (offrire acqua o cibo a chi ne ha bisogno), la pazienza (aspettare i più lenti), l’amicizia (dialogare, condividere interessi, gioie e fatiche).

L’escursionismo aristotelico non è quindi un’esperienza meramente individuale. Pur valorizzando l’osservazione personale e la crescita interiore, non dimentica la dimensione comunitaria. È la ricerca del ben vivere insieme, del creare situazioni in cui la virtù diventi contagiosa, un esempio per i compagni di cammino. In questo senso, l’escursione diventa un piccolo microcosmo della vita civile: un’occasione per mettere in pratica i princìpi dell’etica aristotelica nella dimensione sociale.

Il paesaggio come forma e materia: la metafisica del camminare

Aristotele, nella sua metafisica, introdusse la distinzione tra materia e forma. Ogni ente è composto di materia (il substrato) e forma (il principio che lo rende ciò che è). Nell’escursione, si può metaforicamente trasporre questo concetto: il paesaggio è “materia” grezza, ricca di particolari, vari elementi naturali. L’escursionista, con il suo sguardo ordinatore, la sua mente razionale, dona al paesaggio una “forma” interpretativa. Riconosce pattern, classifica, attribuisce significato.

Allo stesso modo, la propria esperienza di cammino è materia (le sensazioni fisiche, le immagini, i suoni) che la mente Aristotelica modella in una forma sensata. Non si riduce a vagare senza criterio, ma dà un ordine, una struttura: sceglie un percorso in base a certe finalità, osserva con un metodo (prima la flora, poi la fauna, poi le caratteristiche geologiche), assegna un significato etico e cognitivo all’esperienza.

Conclusione: un modello di escursionismo per l’oggi

L’escursionismo aristotelico, come descritto in queste pagine, è ovviamente un modello ideale, una metafora filosofica. Nel contesto contemporaneo, rappresenta un invito a un approccio colto, equilibrato e virtuoso al rapporto con la natura. Mentre viviamo in un’epoca in cui spesso l’escursione viene intesa come puro esercizio sportivo, o come semplice evasione estetica, l’approccio aristotelico propone un cammino più ricco e sfaccettato.

Si tratta di coltivare la conoscenza e la virtù lungo il sentiero, di armonizzare corpo e mente, di cercare un equilibrio tra la sfida fisica e la sicurezza, di rispettare la natura come fonte di dati e lezioni, non come semplice scenario. È un’idea di escursionismo che ridà al camminare un carattere filosofico, vicino all’antico ideale greco di paideia: la formazione integrale della persona.

Così, chi intraprende un’escursione ispirandosi ad Aristotele, troverà nel bosco non solo alberi, ma categorie, cause, essenze, relazioni; troverà non soltanto fatica o piacere, ma virtù in azione; non soltanto un fine ricreativo, ma un telos esistenziale. In definitiva, l’escursionismo aristotelico è una via per la eudaimonia, scandita dal ritmo dei passi sulla terra, dal suono del vento tra le foglie e dal lume della ragione che illumina ogni incontro con il mondo.


Contributi precedenti:
  1. Escursionismo pitagorico (Scuola pitagorica)
  2. Escursionismo platonico (Platonismo)

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Dalla FIE: Rinforzare il sistema immunitario camminando nella natura: verità o mito?

Negli ultimi anni si è assistito a un crescente interesse verso l’idea che camminare nella natura possa contribuire a rinforzare il sistema immunitario, una prospettiva che unisce aspetti fisiologici, psicologici e ambientali in un unico approccio olistico al benessere. L’attività fisica moderata, come una camminata all’aria aperta, non solo stimola il corpo attraverso il movimento, ma offre anche l’opportunità di immergersi in ambienti ricchi di stimoli naturali, capaci di favorire un profondo stato di rilassamento e di equilibrio. Diversi studi hanno evidenziato che l’esercizio fisico regolare migliora la circolazione sanguigna, agevolando il trasporto di cellule immunitarie in tutto l’organismo, mentre l’aria fresca e la qualità superiore dell’ambiente naturale rispetto alle aree urbane possono contribuire a ridurre l’esposizione a inquinanti che, in condizioni croniche, appesantiscono il sistema immunitario.

Inoltre, il contatto diretto con la natura è associato a una significativa riduzione dei livelli di stress e ansia, fattori noti per compromettere la funzionalità delle difese immunitarie. Il rilascio eccessivo di cortisolo, ormone dello stress, può infatti indebolire la risposta immunitaria, rendendo il corpo più suscettibile a infezioni e malattie. Trascorrere del tempo immersi in ambienti naturali aiuta a normalizzare questi livelli, creando un ambiente interno favorevole al ripristino dell’equilibrio. La calma offerta da un bosco, dal suono del vento che accarezza le foglie o dal fruscio di un ruscello, permette di spezzare il ciclo del continuo stress quotidiano, favorendo il rilassamento e, di conseguenza, un sistema immunitario più reattivo e pronto a fronteggiare le minacce esterne.

Un ulteriore aspetto fondamentale riguarda l’esposizione alla luce solare, indispensabile per la sintesi della vitamina D, un elemento chiave per il corretto funzionamento delle difese immunitarie. Durante le passeggiate, il corpo produce vitamina D grazie ai raggi ultravioletti, un processo che non solo sostiene la salute delle ossa, ma svolge anche un ruolo importante nel modulare la risposta immunitaria contro infezioni virali e batteriche. È importante, tuttavia, adottare comportamenti responsabili e proteggere la pelle con adeguate misure solari, evitando un’eccessiva esposizione che potrebbe comportare rischi a lungo termine. L’equilibrio tra i benefici della luce naturale e la necessità di proteggersi rappresenta un punto cruciale nella pratica del camminare all’aperto, trasformando ogni escursione in un’occasione di salute consapevole.

La pratica regolare del camminare nella natura si rivela particolarmente vantaggiosa anche per le persone in età avanzata, che possono trarre beneficio da un’attività fisica a basso impatto. Per gli anziani, il mantenimento della mobilità, dell’equilibrio e della forza muscolare è essenziale per preservare l’autonomia e la qualità della vita. In questo contesto, le passeggiate non rappresentano solo un’attività di svago, ma un vero e proprio strumento di prevenzione contro patologie croniche e degenerative. Il miglioramento della circolazione, l’incremento della capacità polmonare e la stimolazione del sistema immunitario offrono a questa fascia di popolazione un metodo naturale per contrastare l’insorgenza di infezioni e per ridurre il rischio di complicanze legate al normale processo di invecchiamento.

Nonostante il potenziale beneficio, è essenziale adottare un approccio equilibrato e personalizzato. L’idea di considerare il camminare nella natura come un “elisir” universale per il sistema immunitario va integrata in una visione più ampia dello stile di vita, che includa anche una dieta bilanciata, il riposo adeguato e altre buone abitudini salutari. L’intensità, la durata e la frequenza dell’attività fisica sono fattori determinanti: un esercizio moderato e regolare può effettivamente potenziare le difese immunitarie, mentre un’attività eccessivamente intensa o svolta in condizioni ambientali sfavorevoli potrebbe, al contrario, generare uno stress fisico ulteriore. La complessità della risposta immunitaria impone quindi una valutazione attenta e personalizzata, considerando le specifiche condizioni fisiche e le eventuali limitazioni individuali.

La letteratura scientifica sul tema offre evidenze interessanti, seppur ancora in evoluzione. Diversi studi hanno rilevato che l’attività fisica in ambienti naturali è correlata a una riduzione dei marcatori di infiammazione e a un miglioramento della variabilità della frequenza cardiaca, indicatore di una buona salute cardiovascolare e, indirettamente, immunitaria. In alcuni casi, si è osservato un aumento temporaneo dell’attività dei linfociti Natural Killer, cellule cruciali nella lotta contro virus e tumori, subito dopo una sessione di camminata all’aperto. Questi risultati suggeriscono che l’interazione tra esercizio fisico e ambiente naturale possa agire in sinergia per modulare positivamente la risposta immunitaria, anche se rimangono ancora molte domande aperte riguardo ai meccanismi esatti e alla durata degli effetti benefici.

La dimensione psicologica del camminare nella natura non può essere sottovalutata. Il semplice atto di allontanarsi dalla frenesia urbana e immergersi in un contesto naturale favorisce la disconnessione da fonti di stress quotidiano, permettendo all’individuo di ricalibrarsi e di ritrovare un equilibrio interiore. Questo stato di serenità ha un impatto diretto sulla salute immunitaria, poiché la riduzione dello stress cronico è associata a una minore produzione di ormoni che possono sopprimere il sistema difensivo. Inoltre, il contatto con il verde e l’esperienza sensoriale offerta dalla natura stimolano la produzione di neurotrasmettitori che migliorano l’umore e favoriscono una migliore qualità del sonno, elementi essenziali per un sistema immunitario efficiente.

L’integrazione della camminata in natura in un contesto di vita sano si configura dunque come una strategia preventiva a basso costo, in grado di contribuire in maniera significativa alla resilienza dell’organismo. Le testimonianze di chi ha adottato questa pratica, unite ai dati emergenti dalla ricerca, delineano un quadro positivo, pur riconoscendo che i benefici sono il risultato di un insieme di fattori che vanno considerati nel loro complesso. Non si tratta di una soluzione miracolosa, ma di un elemento complementare all’interno di uno stile di vita orientato alla prevenzione e al benessere globale.

Culturalmente, il valore della natura come fonte di salute non è nuovo: in molte tradizioni antiche e moderne si riconosceva l’importanza del “bagno nella foresta” o della connessione quotidiana con il verde per ristabilire l’armonia interiore e rafforzare le difese naturali. Questa saggezza, ormai riscoperta anche dalla comunità scientifica, evidenzia come l’interazione con l’ambiente naturale non sia soltanto una questione di estetica, ma rappresenti un vero e proprio investimento sulla salute, capace di offrire benefici che spaziano dalla prevenzione delle malattie all’ottimizzazione delle funzioni cognitive e immunitarie.

In sintesi, camminare nella natura rappresenta un’opportunità concreta per rafforzare il sistema immunitario, a patto che venga integrato in un contesto di vita sano e bilanciato. La sinergia tra esercizio fisico, riduzione dello stress, miglioramento della circolazione e stimolazione della sintesi di vitamina D offre una prospettiva promettente, supportata da evidenze scientifiche e testimonianze di chi ha sperimentato personalmente questi benefici. Pur non potendo essere considerato un rimedio miracoloso, il camminare all’aperto si configura come uno strumento efficace e accessibile per migliorare la salute immunitaria, invitando ciascuno a ritrovare, anche solo per qualche ora alla settimana, il piacere e la rigenerazione che solo la natura sa offrire.

 

L’articolo Rinforzare il sistema immunitario camminando nella natura: verità o mito? proviene da FIE Italia – Federazione Italiana Escursionismo.

Dalla FIE: Anomalie climatiche in montagna: eventi rari e approfondimenti scientifici

Così come abbiamo fatto per la Giornata Mondiale dell’Acqua, anche per quella della meteorologia proponiamo una serie di articoli di approfondimento, con lo scopo di informare e coinvolgere sempre di più la schiera degli appassionati di escursionismo, aumentandone la consapevolezza in materia di protezione dell’ambiente e del territorio.


Le montagne rappresentano uno degli ecosistemi più affascinanti e complessi del nostro pianeta. Con le loro vette imponenti, i pendii scoscesi e le vallate profonde, costituiscono veri e propri laboratori naturali per la ricerca scientifica. In questi ambienti, il clima gioca un ruolo cruciale: l’altitudine, l’orografia e la varietà di microclimi rendono le condizioni atmosferiche in montagna estremamente variabili e spesso imprevedibili.

Proprio questa imprevedibilità rende il tema delle anomalie climatiche di particolare interesse. Quando parliamo di “anomalia climatica”, ci riferiamo a un evento o a una serie di eventi meteorologici che si discostano sensibilmente dalla norma statistica, generando situazioni insolite, raramente osservate o del tutto eccezionali. Tali fenomeni possono manifestarsi in diversi modi: ondate di caldo anomalo in pieno inverno, precipitazioni nevose eccezionali, tempeste improvvise di violenta intensità, cambi repentini di temperatura, periodi di siccità inaspettata o, al contrario, precipitazioni torrenziali concentrate in brevi lassi di tempo.

Per gli escursionisti, gli alpinisti e, più in generale, per chi vive la montagna, le anomalie climatiche rappresentano una sfida notevole. Pianificare un’escursione, gestire la sicurezza in alta quota o predisporre misure di protezione civile richiede infatti la conoscenza dei possibili scenari meteorologici, inclusi quelli meno probabili. Allo stesso tempo, dal punto di vista scientifico, le anomalie climatiche costituiscono una preziosa finestra di osservazione: esse permettono di testare i modelli previsionali, di comprendere meglio i processi fisici che regolano l’atmosfera e di verificare l’impatto del cambiamento climatico su scala locale.

In questo lungo articolo, cercheremo di fare luce sul concetto di “anomalie climatiche” in ambiente montano, illustrandone le principali tipologie, le possibili cause e gli effetti sulle attività umane e sugli ecosistemi. Passeremo in rassegna alcuni casi storici emblematici, analizzeremo gli strumenti e le metodologie di monitoraggio e parleremo degli studi scientifici più recenti. Infine, getteremo uno sguardo alle prospettive future, evidenziando il ruolo delle politiche di adattamento e delle nuove tecnologie nella gestione del rischio.

Che tu sia un escursionista, una guida alpina, un ricercatore o un semplice appassionato di montagna, speriamo che queste pagine possano offrirti spunti utili e interessanti per approfondire un tema di grande attualità, tanto affascinante quanto complesso.

Definire le anomalie climatiche in montagna

Il concetto di “anomalia climatica”

In meteorologia e climatologia, si definisce “anomalia” la deviazione di un parametro (temperatura, precipitazione, pressione atmosferica, ecc.) rispetto a un valore medio di riferimento, calcolato su un periodo sufficientemente lungo. Quando questa deviazione risulta particolarmente marcata o si verifica con frequenza insolita, si parla di “anomalia climatica”.

Per esempio, se in una determinata zona alpina la temperatura media di gennaio è storicamente di -2 °C, ma in un anno specifico si registra una media di +5 °C, possiamo parlare di un’anomalia termica positiva di ben 7 gradi rispetto alla norma. Allo stesso modo, se in un determinato mese, normalmente caratterizzato da scarse precipitazioni, si verificano forti temporali e rovesci frequenti, con un accumulo totale di pioggia o neve molto superiore alle medie stagionali, ci troveremo di fronte a un’anomalia pluviometrica.

Perché le montagne sono particolarmente soggette ad anomalie

Le aree montane, a causa della loro conformazione orografica, amplificano spesso i fenomeni meteorologici. L’effetto orografico costringe le masse d’aria a sollevarsi, causando raffreddamento e condensazione del vapore acqueo: questo fenomeno favorisce la formazione di nubi e precipitazioni, talvolta anche molto intense, soprattutto nei versanti esposti alle correnti umide.

Inoltre, la variabilità altitudinale crea microclimi molto diversi tra loro a poche centinaia di metri di dislivello. Questo rende le montagne aree particolarmente sensibili ai cambiamenti climatici e, di conseguenza, alla manifestazione di anomalie. Un piccolo cambiamento nella circolazione atmosferica, che in pianura potrebbe passare quasi inosservato, in montagna può tradursi in un temporale violento, in un’ondata di caldo anomalo o in nevicate fuori stagione.

Anomalie “positive” e anomalie “negative”

Nel gergo climatico, si usa spesso parlare di “anomalia positiva” o “anomalia negativa” in riferimento al segno della deviazione rispetto alla media. Un’anomalia termica positiva indica temperature superiori alla norma, mentre un’anomalia termica negativa indica temperature inferiori alla norma. Analogamente, per le precipitazioni, un’anomalia positiva corrisponde a piogge o nevicate più abbondanti del solito, mentre un’anomalia negativa indica un deficit pluviometrico.

Tuttavia, l’aggettivo “positivo” o “negativo” non va inteso in senso qualitativo (come “buono” o “cattivo”), ma unicamente come segno matematico della deviazione. Infatti, un’ondata di caldo anomalo in pieno inverno (anomalia termica positiva) può avere effetti negativi sul manto nevoso e sulle riserve idriche, mentre un’anomalia di freddo estremo (negativa) può creare disagi alle infrastrutture e agli ecosistemi.

Tipologie di anomalie climatiche in montagna

Ondate di caldo anomalo

Le ondate di caldo anomalo in ambiente montano si verificano quando masse d’aria molto calda e secca, provenienti ad esempio dal Nord Africa o dal Mediterraneo centrale, risalgono verso le catene montuose. A volte, questi fenomeni possono manifestarsi in periodi dell’anno insoliti, come la fine dell’inverno o l’inizio della primavera, causando temperature nettamente superiori alla norma.

In montagna, le conseguenze di un’ondata di caldo possono essere particolarmente rilevanti: rapida fusione del manto nevoso, incremento del pericolo valanghe, stress idrico per la vegetazione e possibili impatti sulle attività turistiche (ad esempio, chiusura anticipata degli impianti sciistici).

Esempio pratico:
  • Caso studio: Un’ondata di caldo anomalo che, nel mese di febbraio, innalza le temperature fino a valori tipici di aprile. In quota, le temperature passano da -5 °C a +10 °C nel giro di pochi giorni. Il manto nevoso si assesta rapidamente, con possibili valanghe di fondo e valanghe a debole coesione su pendii soleggiati.

Nevicate eccezionali o fuori stagione

Le nevicate eccezionali rientrano tra le anomalie climatiche più spettacolari in montagna. Possono verificarsi in due modi principali:

  1. Accumuli nevosi straordinari in periodi “normali” per la neve (ad esempio, in pieno inverno), ma con quantità molto superiori alle medie storiche.
  2. Nevicate fuori stagione, come quelle che avvengono a quote relativamente basse o in periodi in cui solitamente le temperature sarebbero già primaverili o estive.

Questi eventi possono provocare disagi considerevoli, interrompendo la viabilità, isolando località montane e danneggiando infrastrutture come linee elettriche e telefoniche. Al contempo, da un punto di vista ecologico, nevicate abbondanti possono favorire la riserva idrica primaverile e mitigare il rischio siccità in estate, sebbene un eccesso di neve tardiva possa danneggiare la vegetazione in fase di germinazione.

Temporali violenti e grandinate improvvise

I temporali violenti rappresentano una delle anomalie più insidiose in montagna. Generati spesso da instabilità atmosferiche di origine convettiva, possono manifestarsi in modo improvviso, specialmente durante la stagione estiva, ma non solo. Grandine di grandi dimensioni, raffiche di vento (downburst) e fulmini costituiscono i principali pericoli per chi si trova sui sentieri o in parete.

Il fenomeno della grandinata in alta quota può essere particolarmente devastante per le coltivazioni (nelle valli) e per le strutture ricettive. Inoltre, forti piogge concentrate in breve tempo possono innescare frane e smottamenti, aumentando il rischio idrogeologico.

Fenomeni di inversione termica

L’inversione termica è una condizione in cui la temperatura dell’aria aumenta con la quota anziché diminuire. Sebbene non sia un’anomalia in senso stretto (poiché in alcune valli alpine l’inversione termica è un fenomeno ricorrente, specie in inverno), può assumere caratteri di eccezionalità quando persiste a lungo o raggiunge intensità particolarmente elevate.

In questi casi, i fondovalle restano intrappolati in uno strato di aria fredda e umida, con nebbie persistenti, mentre in quota il cielo è sereno e le temperature possono risultare sorprendentemente miti. Questo fenomeno può essere definito “anomalo” se la differenza di temperatura tra valle e cima supera di molto la media, o se si verifica in periodi dell’anno insoliti.

Periodi di siccità e scarsità idrica

La siccità in montagna è spesso sottovalutata, poiché si tende a pensare alle aree montuose come a luoghi ricchi di sorgenti e precipitazioni. Tuttavia, periodi prolungati di assenza di piogge o di nevicate possono compromettere le riserve idriche, con conseguenze sulla disponibilità d’acqua potabile, sull’irrigazione e sulla produzione di energia idroelettrica.

Le anomalie di siccità in alta quota possono essere causate da blocchi atmosferici, ossia situazioni in cui un anticiclone staziona a lungo su una determinata area, impedendo il passaggio delle perturbazioni. Tali condizioni possono avere effetti a cascata sugli ecosistemi montani, provocando stress idrico per la flora e la fauna.

Fenomeni di “foehn estremo” e venti anomali

Il vento di foehn è un vento caldo e secco che discende dai versanti sottovento di una catena montuosa. È un fenomeno tipico delle Alpi, ma può verificarsi anche in altre regioni montane. In alcuni casi, l’intensità del foehn può raggiungere valori eccezionali, con raffiche che superano i 150-200 km/h, provocando danni a boschi, edifici e infrastrutture.

Questi episodi di “foehn estremo” sono considerati anomalie climatiche perché si discostano notevolmente dalle medie storiche in termini di velocità del vento e durata dell’evento. Il foehn, inoltre, provoca un rapido innalzamento delle temperature e una marcata diminuzione dell’umidità relativa, con potenziali rischi di incendi boschivi e shock termico per la vegetazione.

Fattori e cause scatenanti delle anomalie climatiche in montagna

La circolazione atmosferica su scala globale

Molte anomalie climatiche in ambiente montano sono il risultato di configurazioni atmosferiche su larga scala. I principali pattern di circolazione (come la Corrente a Getto, l’Anticiclone delle Azzorre, l’Anticiclone Russo-Siberiano, ecc.) influenzano la traiettoria delle perturbazioni e la distribuzione delle masse d’aria.

In presenza di situazioni di blocco (blocking patterns), un anticiclone o un’area di bassa pressione può rimanere stazionaria per diversi giorni o addirittura settimane, provocando anomalie termiche o pluviometriche. Se questo avviene in prossimità di una catena montuosa, l’effetto orografico può amplificare o localizzare il fenomeno.

Il ruolo dell’orografia e dei microclimi

Come accennato, l’orografia è un fattore chiave per spiegare le anomalie climatiche in montagna. Le catene montuose agiscono come barriere fisiche che deviano i flussi d’aria e creano gradienti di temperatura e umidità. Inoltre, la presenza di vallate, gole, altipiani e crinali determina una molteplicità di microclimi, ciascuno dei quali può reagire in modo diverso alle forzanti meteorologiche.

Un esempio tipico è la “valle chiusa”, dove l’aria fredda può ristagnare per giorni, favorendo l’inversione termica. Oppure le valli “a V” molto strette, in cui la convergenza dei venti può generare temporali localizzati ma di forte intensità.

Teleconnessioni e fenomeni globali

Alcune anomalie climatiche, pur manifestandosi su scala locale o regionale, possono avere cause riconducibili a fenomeni globali noti come teleconnessioni. Tra i più importanti ricordiamo:

  • El Niño e La Niña: oscillazioni termiche delle acque superficiali dell’Oceano Pacifico, che influenzano il clima su scala planetaria.
  • NAO (North Atlantic Oscillation): oscillazione nord-atlantica, che regola la posizione e l’intensità dei centri di alta e bassa pressione tra l’Islanda e le Azzorre.
  • AO (Arctic Oscillation): oscillazione artica, che influisce sulla dispersione o sul confinamento dell’aria fredda polare.

Quando queste teleconnessioni assumono valori estremi, possono generare “rimbalzi” climatici in zone lontane. Ad esempio, un forte El Niño può alterare la circolazione atmosferica in Atlantico e Mediterraneo, favorendo periodi di siccità o, al contrario, precipitazioni intense nelle regioni montuose europee.

Cambiamenti climatici e frequenza delle anomalie

È ormai ampiamente riconosciuto dalla comunità scientifica che il cambiamento climatico in atto, causato in buona parte dalle emissioni antropiche di gas serra, stia influenzando la frequenza e l’intensità degli eventi estremi. Se un tempo determinate anomalie climatiche si verificavano con cadenza decennale o pluridecennale, oggi possono ripetersi più spesso, con intervalli di tempo ridotti.

In montagna, questo fenomeno è particolarmente evidente: il riscaldamento globale porta a un innalzamento della quota dello zero termico, a un aumento delle precipitazioni liquide a scapito di quelle nevose, e a una maggiore variabilità climatica. Di conseguenza, anomalie come ondate di caldo, siccità, nevicate fuori stagione o temporali violenti potrebbero diventare più comuni rispetto al passato.

Esempi storici di anomalie climatiche in ambiente montano

L’estate del 2003: caldo eccezionale sulle Alpi

Uno degli episodi più noti di anomalia termica in Europa fu l’estate del 2003, quando un vasto anticiclone subtropicale stazionò a lungo sul continente, causando temperature eccezionalmente elevate. Nelle regioni alpine, le vette furono investite da ondate di caldo prolungate, con valori termici di 5-7 °C superiori alla media. Il manto nevoso residuo si sciolse con estrema rapidità, innescando colate detritiche e frane in alcune zone. Molti ghiacciai subirono un arretramento significativo, perdendo spessori di ghiaccio che in condizioni normali avrebbero richiesto anni per sciogliersi.

L’inverno 2013-2014: precipitazioni record sulle Alpi occidentali

Tra il dicembre 2013 e il febbraio 2014, gran parte delle Alpi occidentali fu interessata da precipitazioni eccezionali. In alcune stazioni di rilevamento, si registrò il doppio o il triplo delle precipitazioni medie, con accumuli nevosi straordinari a quote medio-alte. La combinazione di perturbazioni atlantiche a ripetizione e l’effetto di sbarramento orografico produssero numerosi disagi: valanghe, chiusure stradali, problemi di approvvigionamento elettrico. Tuttavia, dal punto di vista delle risorse idriche, l’inverno 2013-2014 garantì un buon “serbatoio” di neve, riducendo il rischio siccità nella stagione successiva.

La tempesta Vaia del 2018

Nel tardo autunno del 2018, una vasta depressione sull’Atlantico generò una serie di perturbazioni violente che colpirono il Nord-Est italiano. La cosiddetta tempesta Vaia portò venti di scirocco e libeccio di intensità eccezionale sulle Dolomiti, con raffiche che superarono i 200 km/h in alcune località. Interi boschi furono rasi al suolo, con milioni di alberi abbattuti e danni ingentissimi alle infrastrutture. Questo evento, considerato anomalo per la stagione (fine ottobre) e per la straordinaria potenza dei venti, è ancora oggi al centro di studi scientifici e piani di riforestazione.

Nevicate eccezionali in primavera e inizio estate

Diversi episodi storici hanno visto nevicate fuori stagione in ambiente montano, talvolta perfino a quote collinari. Un esempio recente si è verificato a fine maggio 2019, quando un’irruzione di aria artica colpì le Alpi e l’Appennino settentrionale, facendo crollare le temperature di oltre 10 °C in poche ore e portando la neve fin verso i 700-800 metri di quota. Questa situazione, sebbene non del tutto inedita, è risultata piuttosto anomala per l’intensità e l’estensione geografica, danneggiando le colture e creando disagi ai turisti che già si aspettavano un clima quasi estivo.

Impatti delle anomalie climatiche sulle attività umane e sugli ecosistemi montani

Turismo e attività outdoor

Le anomalie climatiche possono avere conseguenze rilevanti sul turismo montano. Un’ondata di caldo fuori stagione può, ad esempio, anticipare la chiusura degli impianti sciistici o ridurre l’appeal delle località di alta quota, mentre un periodo di siccità prolungata può aumentare il rischio di incendi boschivi, scoraggiando i visitatori. Al contrario, nevicate eccezionali possono attirare sciatori e appassionati di sport invernali, ma se troppo intense e concentrate, rischiano di bloccare le vie di accesso, con ricadute negative sull’economia locale.

Per gli escursionisti e gli alpinisti, le anomalie climatiche richiedono una pianificazione ancora più attenta: la consultazione di bollettini meteo, l’uso di dispositivi di sicurezza, la valutazione del rischio valanghe o di temporali improvvisi diventano passaggi fondamentali per garantire un’esperienza sicura.

Agricoltura e risorse idriche

Sebbene l’agricoltura in montagna sia meno estesa rispetto a quella di pianura, esistono produzioni di nicchia (allevamento, colture di montagna, vigneti ad alta quota) che possono risentire fortemente di anomalie termiche o pluviometriche. Gelate tardive o nevicate fuori stagione possono distruggere gemme e fiori, compromettendo il raccolto. Periodi di siccità possono ridurre la disponibilità d’acqua per l’irrigazione e l’abbeveraggio del bestiame, mentre piogge troppo abbondanti possono favorire malattie fungine e la proliferazione di parassiti.

Impatto sulla biodiversità e sugli ecosistemi

Gli ecosistemi montani sono particolarmente fragili. Le specie vegetali e animali che vivono in alta quota sono adattate a condizioni estreme e a una breve stagione vegetativa. Eventi anomali, come ondate di caldo o nevicate tardive, possono disturbare i cicli riproduttivi e compromettere la sopravvivenza di alcune specie. Ad esempio, una fioritura anticipata seguita da una gelata improvvisa può distruggere intere popolazioni di piante endemiche.

Le variazioni nella disponibilità di acqua (siccità o piogge intense) influiscono sulla distribuzione e sull’abbondanza delle risorse alimentari, con ripercussioni sulla fauna selvatica. Gli ungulati (come camosci, stambecchi) possono avere difficoltà a trovare pascoli adeguati, mentre predatori come l’aquila reale possono subire un calo delle prede.

Rischio idrogeologico e protezione civile

Le anomalie climatiche possono aumentare il rischio di frane, smottamenti e alluvioni in ambiente montano. Precipitazioni eccezionali concentrano in poche ore o giorni una quantità d’acqua che il terreno non riesce ad assorbire, provocando un rapido innalzamento dei corsi d’acqua e il distacco di colate detritiche. In situazioni di caldo anomalo, invece, la fusione rapida della neve può sovraccaricare torrenti e bacini, aumentando il pericolo di esondazioni.

Per la protezione civile, la gestione delle anomalie climatiche in montagna richiede piani di emergenza specifici: monitoraggio costante dei livelli dei fiumi, controllo dei pendii instabili, evacuazione preventiva di aree a rischio, informazione tempestiva alla popolazione locale e ai turisti. Un sistema di allerta precoce efficace è essenziale per minimizzare i danni e salvaguardare vite umane.

Approfondimenti scientifici: la ricerca sulle anomalie climatiche

Metodologie di studio

La ricerca sulle anomalie climatiche in ambiente montano si basa su una varietà di approcci e metodologie:

  • Analisi statistica dei dati storici, per individuare trend e frequenza degli eventi estremi.
  • Modellistica numerica, che utilizza equazioni fisiche per simulare l’evoluzione dell’atmosfera e valutare l’impatto di determinate condizioni iniziali o forzanti esterne.
  • Telerilevamento (satelliti, radar, droni) e osservazioni in situ (stazioni meteorologiche, sonde, sensori) per monitorare in tempo reale i parametri ambientali.
  • Proxi data, ovvero dati indiretti ricavati da anelli di accrescimento degli alberi (dendroclimatologia), carote di ghiaccio (glaciologia) o sedimenti lacustri (paleoclimatologia) per ricostruire le condizioni climatiche del passato e confrontarle con quelle attuali.

Ruolo dei centri di ricerca e delle università

In Italia e in Europa, esistono numerosi centri di ricerca specializzati nello studio del clima e delle anomalie climatiche in montagna: università, istituti come il CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche), fondazioni e consorzi. Molte ricerche sono svolte in collaborazione con enti internazionali, nell’ambito di progetti finanziati dall’Unione Europea o da organizzazioni mondiali (WMO, IPCC).

Uno degli aspetti centrali della ricerca consiste nel comprendere come il cambiamento climatico globale influenzi la distribuzione e la frequenza delle anomalie su scala locale. Per fare ciò, i ricercatori utilizzano modelli climatici ad alta risoluzione (downscaling) che consentono di “zoomare” sulle regioni montane e valutare scenari futuri di temperatura, precipitazioni ed eventi estremi.

Studi su ghiacciai e permafrost

Particolarmente rilevanti, nel contesto montano, sono gli studi su ghiacciai e permafrost. I ghiacciai, infatti, sono considerati indicatori molto sensibili del cambiamento climatico: un anno particolarmente caldo o un’estate con precipitazioni ridotte possono accelerarne la fusione, mentre inverni con abbondanti nevicate possono rallentare il loro ritiro.

Il permafrost (terreno perennemente gelato) è anch’esso soggetto a variazioni in funzione delle anomalie termiche. Quando si verificano periodi prolungati di temperature superiori alla media, lo strato attivo del permafrost si ispessisce, causando instabilità nei pendii e aumentando il rischio di frane e crolli di roccia in alta quota.

Collaborazioni interdisciplinari

Data la complessità del tema, la ricerca sulle anomalie climatiche in montagna è per sua natura interdisciplinare. Meteorologi, climatologi, glaciologi, geologi, ecologi, ingegneri e sociologi collaborano per comprendere i diversi aspetti del problema e proporre soluzioni integrate.

Ad esempio, per valutare l’impatto di un’anomalia climatica su un bacino idrografico montano, occorre considerare non solo i parametri meteo-climatici, ma anche la geomorfologia, la vegetazione, l’uso del suolo, le infrastrutture e la presenza di insediamenti umani. Solo unendo queste competenze è possibile formulare previsioni accurate e pianificare interventi di adattamento o mitigazione.

Il ruolo dei cambiamenti climatici: verso una maggiore frequenza degli eventi estremi?

Cosa dicono gli studi dell’IPCC

L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), il principale organismo scientifico internazionale che studia i cambiamenti climatici, ha evidenziato come l’aumento delle temperature globali sia associato a una maggiore frequenza di eventi estremi. Nelle regioni montane, il riscaldamento è mediamente più rapido rispetto alle zone di pianura (fenomeno noto come “amplificazione altimetrica”).

I rapporti dell’IPCC indicano che, con il progredire del riscaldamento globale, è probabile che si verifichino più spesso ondate di calore, periodi di siccità, precipitazioni intense e fenomeni idrogeologici associati. Questo trend potrebbe accentuare l’instabilità dei ghiacciai e del permafrost, aumentando il rischio di crolli e frane.

Proiezioni per le Alpi e gli Appennini

Nel contesto italiano, studi condotti su Alpi e Appennini suggeriscono scenari analoghi:

  • Un aumento delle temperature medie annue, con inverni più miti e riduzione dell’innevamento a quote medio-basse.
  • Un incremento della frequenza di eventi estremi, come temporali convettivi, grandinate, periodi di siccità.
  • Un maggiore rischio di eventi di fusione rapida della neve e conseguenti piene improvvise.
  • Una potenziale intensificazione del foehn e di altri venti di caduta.

Tuttavia, va ricordato che esistono ancora incertezze nei modelli e che la risposta di ogni area montana può variare in base a fattori locali (orografia, posizione geografica, copertura vegetale, ecc.).

Adattamento e mitigazione

Di fronte a queste prospettive, l’adattamento al cambiamento climatico diventa una priorità. Le comunità montane possono adottare strategie di mitigazione (riduzione delle emissioni di gas serra, efficienza energetica, utilizzo di fonti rinnovabili) e di adattamento (pianificazione urbanistica, protezione delle risorse idriche, prevenzione del rischio idrogeologico, tutela dei ghiacciai, riforestazione).

Anche il settore turistico e quello agricolo devono prepararsi a gestire una maggiore variabilità climatica, investendo in infrastrutture resilienti e in sistemi di allerta precoce. La collaborazione tra enti locali, regioni e Stato, insieme al supporto di associazioni come la FIE, è essenziale per sviluppare politiche integrate ed efficaci.

Tecnologie e strumenti per il monitoraggio delle anomalie climatiche in montagna

Reti di stazioni meteorologiche automatiche

Un monitoraggio capillare del clima in montagna richiede una rete di stazioni meteorologiche ad alta quota, capaci di rilevare temperatura, umidità, pressione, direzione e velocità del vento, radiazione solare, precipitazioni. Grazie alle tecnologie moderne, queste stazioni possono essere completamente automatiche e trasmettere i dati in tempo reale via radio, telefonia mobile o satellite.

Le stazioni sono spesso installate in luoghi impervi e devono essere progettate per resistere a condizioni estreme (forti venti, nevicate abbondanti, basse temperature). I dati raccolti alimentano i modelli previsionali, aiutando i meteorologi a individuare e studiare le anomalie in corso o imminenti.

Telerilevamento satellitare e radar meteorologici

Oltre alle osservazioni al suolo, un ruolo fondamentale è svolto dal telerilevamento. I satelliti meteorologici (come quelli gestiti da EUMETSAT in Europa) forniscono immagini nell’infrarosso, nel visibile e in altre bande spettrali, consentendo di monitorare la copertura nuvolosa, la temperatura della superficie terrestre e del mare, l’umidità atmosferica, e molto altro.

I radar meteorologici, invece, permettono di rilevare la presenza di precipitazioni (pioggia, neve, grandine) e di stimarne l’intensità. In ambiente montano, l’utilizzo del radar può essere ostacolato dall’orografia, che limita la portata del fascio radar. Tuttavia, la rete radar italiana, gestita principalmente dal Dipartimento della Protezione Civile e dalle ARPA regionali, offre una copertura abbastanza buona, utile a individuare temporali e fenomeni intensi.

Droni e sensori innovativi

Negli ultimi anni, si è assistito a un crescente impiego di droni e di sensori miniaturizzati per raccogliere dati in zone altrimenti difficili da raggiungere. I droni possono sorvolare ghiacciai, pendii instabili o aree colpite da frane, fornendo immagini ad alta risoluzione e misurazioni atmosferiche.

Allo stesso tempo, sensori innovativi basati su tecnologie IoT (Internet of Things) possono essere distribuiti su vaste aree montane per misurare parametri ambientali (temperatura del suolo, umidità, stato del permafrost) e trasmetterli a centrali di raccolta dati. Questi strumenti consentono di monitorare le anomalie climatiche con una precisione e una tempestività senza precedenti.

Modelli di previsione ad alta risoluzione

Per cogliere la complessità dell’ambiente montano, i centri meteorologici utilizzano modelli numerici di previsione a risoluzione sempre più alta (fino a 1 km o meno). Questi modelli, detti “ad area limitata”, tengono conto della topografia locale e sono in grado di simulare i processi di convezione, la formazione di nubi orografiche e la distribuzione spaziale delle precipitazioni.

Grazie a queste simulazioni, i meteorologi possono emettere allerte più mirate, indicando ad esempio le zone montane più a rischio di temporali intensi, di accumuli nevosi eccezionali o di valanghe. Tuttavia, la previsione a breve termine in montagna rimane una sfida, a causa della rapida evoluzione dei fenomeni e della sensibilità del modello alle condizioni iniziali.

Politiche e strategie di adattamento e prevenzione

Ruolo delle istituzioni e degli enti locali

Le anomalie climatiche in montagna, con i loro effetti potenzialmente dannosi, richiedono l’intervento coordinato di istituzioni a diversi livelli: comuni, regioni, Stato, Unione Europea. Questi soggetti hanno il compito di definire piani di emergenza, stanziare fondi per la protezione civile, incentivare la ricerca scientifica e promuovere politiche di adattamento ai cambiamenti climatici.

Un esempio concreto è la realizzazione di opere di difesa idrogeologica (argini, briglie, vasche di laminazione), l’installazione di sistemi di allerta precoce per valanghe o frane, e la manutenzione delle infrastrutture stradali in aree a rischio.

Coinvolgimento delle comunità locali

Le comunità montane sono spesso le prime a subire gli effetti delle anomalie climatiche e, allo stesso tempo, possono svolgere un ruolo attivo nella prevenzione e nella gestione del rischio. Attraverso processi di partecipazione e di informazione capillare, le popolazioni locali possono contribuire a individuare le criticità sul territorio, segnalare frane in atto, monitorare le portate dei torrenti e collaborare con i volontari della protezione civile.

L’educazione ambientale e la formazione specifica sono fondamentali per aumentare la consapevolezza dei rischi e la capacità di risposta. La FIE, in questo senso, può promuovere corsi, seminari e iniziative rivolte a escursionisti, guide, albergatori e operatori del turismo.

Strumenti economici e finanziari

Per incentivare l’adattamento ai cambiamenti climatici e la riduzione dei rischi legati alle anomalie, possono essere messi in campo strumenti economici e finanziari:

  • Sussidi e incentivi per la realizzazione di opere di messa in sicurezza del territorio.
  • Agevolazioni fiscali per chi investe in progetti di ricerca o in infrastrutture verdi (ad esempio, riforestazione o ripristino di zone umide).
  • Polizze assicurative agevolate per le aziende agricole e turistiche che operano in aree montane a rischio.

Cooperazione transfrontaliera

Le catene montuose spesso attraversano i confini nazionali, come le Alpi tra Italia, Francia, Svizzera, Austria e Slovenia. Per affrontare le anomalie climatiche su scala regionale, è necessaria una cooperazione transfrontaliera che includa lo scambio di dati, l’armonizzazione dei sistemi di allerta e l’adozione di strategie comuni di adattamento.

In Europa, programmi come Interreg finanziano progetti congiunti tra regioni di diversi Paesi, promuovendo la condivisione di best practice e la costruzione di reti scientifiche. L’obiettivo è creare un sistema integrato di gestione del rischio climatico, in grado di rispondere in modo efficace e tempestivo agli eventi anomali.

Riflessioni e prospettive future

Verso una maggiore consapevolezza climatica

Il tema delle anomalie climatiche in montagna si inserisce in un dibattito più ampio sulla crisi climatica e sulla necessità di trasformare i nostri modelli di sviluppo. La crescente attenzione dei media e dell’opinione pubblica nei confronti degli eventi estremi può contribuire a rafforzare la consapevolezza ambientale, spingendo individui, aziende e governi a prendere provvedimenti concreti.

Per le regioni montane, questa transizione può rappresentare anche un’opportunità di rilancio: il turismo sostenibile, la valorizzazione dei prodotti tipici, la promozione di fonti rinnovabili e la tutela degli ecosistemi alpini possono diventare leve per uno sviluppo armonioso e rispettoso della natura.

Innovazione tecnologica e scienza dei cittadini

Le tecnologie digitali, la diffusione di smartphone e sensori a basso costo, la potenza dei big data e dell’intelligenza artificiale aprono nuove prospettive per il monitoraggio e lo studio delle anomalie climatiche in montagna. La cosiddetta “Citizen Science” (scienza dei cittadini) coinvolge appassionati e volontari nella raccolta di dati, ad esempio segnalando fenomeni anomali attraverso app dedicate o piattaforme online.

Questo approccio può accelerare la creazione di database condivisi, utili ai ricercatori per validare i modelli e per migliorare la comprensione dei processi climatici locali. Inoltre, favorisce il senso di responsabilità collettiva e la partecipazione attiva delle comunità montane.

Educazione e formazione continua

Un aspetto cruciale per il futuro è l’educazione delle nuove generazioni e la formazione continua degli adulti. Le scuole, le università, le associazioni (come la FIE), i parchi naturali e i centri di ricerca possono organizzare percorsi didattici, laboratori e progetti sul campo, in cui studenti e appassionati imparano a misurare i parametri meteorologici, a leggere le carte sinottiche, a interpretare i bollettini valanghe e a riconoscere i segnali di un cambiamento atmosferico in atto.

Parallelamente, occorre sviluppare una cultura della prevenzione e della sicurezza in montagna, sensibilizzando i frequentatori dell’alta quota ai rischi connessi alle anomalie climatiche. Una popolazione informata e preparata è il primo baluardo contro gli effetti più gravi degli eventi estremi.

Un invito all’azione

Le anomalie climatiche in montagna non sono soltanto un tema di interesse scientifico, ma una realtà concreta che influisce sulla vita di milioni di persone, sull’economia di intere regioni e sulla conservazione di ecosistemi unici. Di fronte a queste sfide, è fondamentale che tutti – istituzioni, comunità locali, operatori turistici, escursionisti, ricercatori – collaborino in modo proattivo.

La FIE, con la sua rete di associazioni e appassionati, può svolgere un ruolo di primo piano nel promuovere la cultura della sostenibilità, della sicurezza e del rispetto per la montagna. Solo attraverso un impegno condiviso, basato sulla conoscenza e sulla consapevolezza, potremo affrontare con successo le anomalie climatiche e proteggere il patrimonio naturale che le montagne rappresentano.

Conclusioni

Le anomalie climatiche in montagna sono eventi rari, talvolta spettacolari, ma spesso portatori di rischi significativi per la vita umana, le attività economiche e gli ecosistemi. Dalle ondate di caldo estremo alle nevicate fuori stagione, dai temporali violenti alle siccità prolungate, questi fenomeni mettono in luce la complessità dell’atmosfera e la vulnerabilità delle regioni montane di fronte al cambiamento climatico.

L’approfondimento scientifico ha mostrato come tali anomalie siano influenzate da una molteplicità di fattori: circolazione atmosferica globale, orografia, teleconnessioni, variazioni di lungo periodo nelle temperature medie, e persino interazioni con l’ambiente antropico. Studi statistici e modelli numerici confermano che la frequenza e l’intensità di molti eventi estremi sono in aumento, soprattutto nelle zone montane, dove il riscaldamento globale agisce più rapidamente.

Di fronte a queste sfide, è essenziale sviluppare strategie di adattamento e mitigazione, basate su una profonda conoscenza scientifica e su un approccio integrato che coinvolga le comunità locali, le istituzioni e il mondo della ricerca. La prevenzione del rischio idrogeologico, la gestione sostenibile delle risorse idriche, la protezione dei ghiacciai e del permafrost, la promozione di un turismo responsabile e la tutela della biodiversità sono solo alcune delle azioni possibili.

La FIE (Federazione Italiana Escursionismo), insieme ad altre realtà associative e agli enti territoriali, può fornire un contributo determinante, sensibilizzando gli escursionisti e la popolazione montana, promuovendo la formazione e la condivisione di buone pratiche. La passione per la montagna, infatti, deve andare di pari passo con la consapevolezza dei rischi e il rispetto per l’ambiente.

In definitiva, le anomalie climatiche in montagna rappresentano un banco di prova sia per la scienza sia per la società. Studiare e comprendere questi eventi non significa solo arricchire le nostre conoscenze, ma anche proteggere un patrimonio naturale e culturale di inestimabile valore, garantendo un futuro sostenibile alle comunità che abitano le terre alte.

L’articolo Anomalie climatiche in montagna: eventi rari e approfondimenti scientifici proviene da FIE Italia – Federazione Italiana Escursionismo.

Dalla FIE: San Michele di Ome, apertura del calendario escursionistico 2025 del G.E. Rodengo Saiano

Benvenuti amici!

Non dei “Sempreverdi”, non dei “Camminatori Lenti e Contenti” è questa escursione che vado a raccontarvi. Bensì del GERS, del “Gruppo Escursionistico di Rodengo Saiano” che oggi, domenica 16 marzo, apre il calendario con una camminata alla portata di tutti, verso la chiesa di San Michele a Ome.

Ma che ci faccio io qui, direte. Beh quest’anno… anche se in precedenza ho partecipato due volte ad una analoga gita di apertura, quest’anno sono pure io un associato. Dopo ben 38 anni dalla fondazione del Gruppo, avvenuta nel 1987, sono arrivato a deciderlo. E sarà un coinvolgimento più di solidarietà che effettivo, continuando, fin quando mi sarà possibile, ad andare in montagna il mercoledì, con uno dei gruppi che ho nominato all’inizio.

Quindi, metto da parte le cose personali e insieme guardiamo cosa succede nel filmato.

Fino a meno di un’ora fa il tempo era incerto e piovoso, ancora si vedono le nubi che si allontanano verso nord. È la coda del maltempo che ha flagellato la Toscana e la Romagna. Ora il cielo si apre al sereno.

Questa plaga della Franciacorta ricca di boschi e di prati, percorsa dalle antiche e benefiche acque del Torrente Gandovere mantiene gran parte dell’aspetto che essa aveva prima della massiccia espansione abitativa, civile e artigiano/industriale, avvenuta partendo dagli anni 70 del 1900. Anche il fatto che ora predomini in “Franciacorta” la coltivazione della vite, qui, su queste colline, i filari appaiono di qualità, ma diciamo… sono umani, non proprio industriali come altrove. Non molto differenti da quelli di una volta, nei quali era privilegiata la “pergola” che dava più produzione, importando meno allora della esasperata qualità del vino.

Quindi amici, prendete ispirazione da queste strade campestri, dalla buona qualità dei prati e dei boschi per una salutare camminata andando come noi da Rodengo a Ome, alla scoperta dalle bellezze del territorio. Come “l’Orto Botanico delle Querce” che offrirà ai passanti e tra poco, la fioritura dei “ciliegi” in un angolo apposito e vi sembrerà di essere in Giappone.

Vi ho raccontato la mia ora, come ce la stiamo raccontando tutti nel video, mescolandoci di volta in volta fin dalla partenza. Io che ho solo in mente di filmare, il racconto ad un occasionale vicino sarebbe stato più o meno quello che avete sentito, da me, ora. Infine siamo giunti a “San Michele” giusto poco prima di mezzogiorno. Vino, pane e salamina, offerti a tutti dal GERS, sono a disposizione, in collaborazione con il “Gruppo Alpini di Ome”.

Un’ora di serenità prima di intraprendere il ritorno. La chiesetta per l’occasione è aperta, io vi mostro solo i particolari graffiti delle galere, ex voto di chi tornò salvo nel 1500 dalla navigazione sui navigli della Serenissima Repubblica Veneta.

A voi scoprire le restanti immagini che ornano tutto San Michele.

Il filmato termina qui. Un saluto a tutti da Eligio Corsini.

L’articolo San Michele di Ome, apertura del calendario escursionistico 2025 del G.E. Rodengo Saiano proviene da FIE Italia – Federazione Italiana Escursionismo.

Dalla FIE: L’allenamento nella marcia di regolarità

Allenamento, questo sconosciuto. Devo ammettere che, all’inizio della mia esperienza nella marcia di regolarità in montagna, l’allenamento era, se non proprio inesistente, quantomeno approssimativo. Il mio ingresso in questo mondo avvenne quasi per caso, quando, in oratorio, due ragazzi “più grandi” di me mi proposero di entrare nella società sportiva del paese, una squadra che si avvicinava al quindicesimo anno di attività con un bel blasone già alle spalle e molto ambiziosa. Non ci pensai più di cinque minuti prima di accettare con entusiasmo questa nuova esperienza. La società mi fornì tutta l’attrezzatura necessaria, inclusi gli scarponi, appartenuti in precedenza a un atleta che, dopo una sola stagione, aveva deciso di dedicarsi ad altro.

Data la mia totale inesperienza nel mondo della montagna, gli inizi furono estremamente faticosi, se non addirittura disastrosi. A livello agonistico, ero in grande difficoltà: durante le prime escursioni domenicali, organizzate per testare la resistenza di ciascun atleta, non riuscivo mai a tenere il ritmo dei miei compagni d’allenamento. Appena il sentiero si faceva più ripido, perdevo immediatamente terreno. Diverso era il discorso per l’apprendimento tecnico: grazie all’insegnamento di un maestro straordinario (che proprio quell’anno avrebbe vinto il suo primo titolo nazionale individuale a soli 22 anni), riuscivo a comprendere rapidamente le logiche di questa disciplina così particolare. Tuttavia, ci sarebbero voluti almeno cinque o sei anni per arrivare alla consapevolezza che la tecnica e la passione, da sole, non sarebbero mai state sufficienti per competere ad alti livelli. Per eccellere, era necessario un serio allenamento fisico.

La domanda che molti si pongono è: serve davvero allenarsi per praticare la marcia di regolarità in montagna? La mia risposta è un deciso sì.

Dopo tante stagioni trascorse sperimentando diversi metodi per arrivare pronto all’inizio delle gare e mantenere la giusta condizione durante tutto il campionato, credo di aver trovato, dopo vent’anni di esperienza, un approccio efficace. Nei primi anni alternavo le escursioni a partite di calcio nel campetto del paese, convinto che potessero aiutarmi a migliorare “il fiato” e “la gamba”. Tuttavia, spesso le uscite venivano annullate a causa del maltempo, e l’ora settimanale di corsa dietro a un pallone non era sufficiente per costruire una vera preparazione atletica.

Solo dopo il servizio militare arrivai alla decisione definitiva: la marcia di regolarità sarebbe stata il mio sport principale e di conseguenza avrei dovuto impostare un allenamento costante e specifico. Il problema era che, almeno nell’ambito della mia società, nessuno sapeva darmi indicazioni precise. Molti atleti si affidavano esclusivamente al loro talento naturale, mentre io avevo bisogno di qualcosa di più strutturato per sentirmi davvero competitivo.

Per alcuni anni, le mie prestazioni furono ancora altalenanti. Nelle gare individuali più impegnative riuscivo a cavarmela grazie all’esperienza, ma i miei limiti fisici erano evidenti. Nelle competizioni a pattuglie o a coppie, invece, spesso mi venivano affiancati atleti molto performanti, in grado di compensare le mie difficoltà, e questo mi permetteva di ottenere risultati discreti ripagando i “loro sforzi”. Tuttavia, la svolta arrivò a metà degli anni ’90 quando in squadra giunse un altro fuoriclasse della marcia di regolarità che mi aprì gli occhi sull’importanza dell’allenamento sistematico. Da allora, iniziai a seguire un programma più rigoroso, con l’uscita serale infrasettimanale di 14-15 km insieme al neoarrivato. Le prime volte tornavo a casa completamente esausto, ma col tempo il mio fisico si adattò, migliorando la resistenza e la capacità di recupero.

Fu in quel momento che compresi come l’allenamento, inizialmente percepito come un sacrificio, fosse in realtà un investimento sulla mia salute innanzitutto e sulla qualità delle mie prestazioni. Da allora, ho abbandonato le abitudini poco efficaci dei primi anni: niente più lunghi stop invernali di due o tre mesi e neppure pause di qualche settimana. L’unico motivo valido per interrompere l’attività fisica è un malessere o un’influenza.

Negli ultimi anni, il mio programma di allenamento è stato strutturato sul lavoro aerobico con due uscite settimanali, solitamente il sabato e la domenica, a causa di impegni lavorativi che rendono impossibili le escursioni infrasettimanali soprattutto nei periodi con l’ora legale. Per un certo qual tempo però non mi sono lasciato scoraggiare nemmeno dal buio, allenandomi spesso con la lampada frontale.

Ma l’allenamento non si limita all’aspetto fisico. Un altro elemento determinante della marcia di regolarità in montagna è la preparazione tecnica, che permette di conoscere a fondo il proprio passo e di sincronizzare perfettamente il movimento con la gestione delle medie orarie nelle gare. Per questo motivo, è essenziale eseguire test per determinare la lunghezza del proprio passo in tutte le situazioni che si possono venire a creare in una competizione e di conseguenza elaborare una tabella personalizzata.

Negli anni, ho sviluppato un metodo personale per la misurazione del passo, basato su un approccio più pratico e meno teorico. Piuttosto che eseguire lunghe sessioni su asfalto o noiosi tratti pianeggianti, preferisco testare la mia cadenza direttamente in montagna, su tratti di percorso misurati di 300-400 metri concatenati uno appresso all’altro con variazioni, spesso naturali, di pendenza e terreno. Analizzando i risultati intermedi, è possibile individuare le differenze di comportamento del passo in base alle condizioni del percorso, ottenendo dati più realistici e utili per la competizione.

Per chi si avvicina alla marcia di regolarità senza esperienza escursionistica, il consiglio è di rivolgersi a una società sportiva già attiva in questa disciplina. Le società possono fornire indicazioni su quali aspetti sviluppare e quale categoria di gara sia più adatta alle proprie capacità. Nella Federazione Italiana Escursionismo, le categorie per i maggiorenni sono tre: Senior, Master e Amatori, sia maschili che femminili mentre nelle giovanili esistono 2 categorie; ragazzi/cadetti che comprendono maschi e femmine dai 10 a 15 anni e la categoria juniores che giunge fino alla maggiore età.

Per un termine di paragone e dare un’indicazione orientativa l’atleta Senior è in grado di mantenere una velocità verticale compresa tra 800 e 1.000 metri all’ora, un Master tra 600 e 800 metri all’ora, e un Amatore tra 400 e 600 metri all’ora. Questi valori sono nettamente superiori ai ritmi standard del CAI, che si attestano intorno ai 300 metri all’ora. È importante sottolineare però che, in una gara individuale di marcia alpina, il regolamento impone limiti precisi: non si possono superare i 450 metri di dislivello in una singola salita e gli 800 metri complessivi.

Oltre all’allenamento fisico, la tecnica gioca un ruolo determinante. Dato che la federazione non prevede la figura dell’istruttore ufficiale, il consiglio è di affidarsi a un atleta esperto e competente. Le basi sono semplici se spiegate nel modo giusto, ma possono diventare fonte di confusione se l’insegnamento non è adeguato. Per chi desidera prepararsi al meglio, anche se la stagione è già avviata, consiglio di effettuare almeno un’uscita infrasettimanale e una nel week-end, con percorsi progressivamente più impegnativi. Si può iniziare con 8 km e 350-400 metri di dislivello, per poi aumentare gradualmente fino a 12-15 km e 1.000 metri di dislivello; quello che vi sembrava impossibile all’inizio del ciclo di uscite potrebbe rivelarsi come una piacevole sorpresa. Come si è potuto ben capire, questa disciplina non si basa solo sulla forza fisica, ma anche e soprattutto la capacità di gestire il passo mantenendo una velocità costante in base alla media oraria richiesta dagli organizzatori. È qui che il “contare i passi” diventa un elemento fondamentale della strategia di gara, sapere dove “spingere” un poco perché le condizioni lo esigono e dove invece “mollare” per le variate condizioni del terreno, piuttosto che un cambio di pendenza, piuttosto che di un tratto più o meno accidentato. Una volta acquisite queste capacità agonistiche/tecniche basterà “divertirsi” facendo uscite anche senza l’ossessione di un cronometro o della forzata prova del passo; accrescerà la bellezza dell’escursione e vi terrà la mente libera per il prossimo impegno agonistico.

Emanuele Corti

L’articolo L’allenamento nella marcia di regolarità proviene da FIE Italia – Federazione Italiana Escursionismo.